Regime contributivo in contropartita alla riforma

il quarto stato (dipinto)

Si parla di contributivo pieno quale condizione sine qua non per una riforma strutturale che apporti maggiore flessibilità ad un sistema previdenziale ingessato da regole eccessivamente aspre ed escludenti.
Per contro crescono timori e preoccupazioni tra i lavoratori che temono per le conseguenze economiche ma le discussioni restano ferme a quota 41 e quota 102.

Una amara riflessione sulla attesa riforma delle pensioni

Fino a pochi giorni fa si assisteva ad una assai poco pregevole contesa tra i fautori della quota e chi invece puntava sul solo requisito contributivo. Inutile dire che entrambe le posizioni derivassero quasi sempre da una visione meramente individualistica del problema. Quale che fosse la soluzione al fine adottata, una gran parte degli altri lavoratori non ne avrebbero tratto alcun beneficio; penso, per esempio, alle carriere interrotte o discontinue delle donne, penso ai disoccupati di lungo corso, penso alle vittime della delocalizzazione, penso agli esodati esclusi dall’ultima salvaguardia. Non è stato piacevole assistere a tale fiera della miopia che, per certi versi, mi riporta alla follia del Titanc, senza nulla togliere alla diversa drammaticità dei contesti. Fatti i dovuti distinguo, si colgono gli stessi comportamenti irrazionali, la stessa violenza, la medesima furia prevaricatrice di chi pensa solo a se stesso; un comportamento irrazionale ma conseguenziale, per certi versi prevedibile e, in limitata misura, comprensibile. In politica – e le riforme pensionistiche sono politica – un simile comportamento è semplicemente sbagliato, castrante; non si può che esecrarlo per la incerta buona fede di molti e per l’assenza di lungimiranza di tutti.

Equità vuole che tutti i cittadini possano guardare ad una vecchiaia dignitosa. Per questo esistono le pensioni pubbliche e l’assistenza pubblica. Per quanto possibile, in misura a quanto il cittadino ha dato alla Società, deve corrispondere una pensione pubblica integrata a livello assistenziale laddove la sola pensione non risulti sufficiente a garantire un livello minimo di autosufficienza economica. Per puntare a questo non basta fissare un massimo contributivo o stabilire delle quote. Occorre pensare anche a chi, per mille ragioni plausibili, questi requisiti non li ha raggiunti né mai li potrà raggiungere. Non solo serve flessibilità quindi; per chi abbia almeno 20 anni di contributi o poco più occorre prospettare soluzioni che non possono certo ridursi ad un pilatesco dimenticatoio in attesa della pensione di vecchiaia; in particolare se teniamo conto che gli incrementi anagrafici scaturiti dalla controriforma, in particolare per le donne, si traducono in un prolungamento di attesa che arriva a superare i sette anni.

Solo entrando in tale ottica potremo pensare ad una riforma strutturale durevole, che consenta di incidere positivamente sulle imminenti decisioni. Il prezzo da pagare, qualora venisse scartata la proposta Tridico della cosiddetta “pensione in due tempi”, è il passaggio al contributivo pieno in cambio della flessibilità e non si tratta di una visione di parte. Sono i fatti a dirlo: a cominciare dalle divergenze di opinioni che serpeggiano tra i lavoratori, per finire alla estrema incapacità di analisi e di sintesi degli stessi che mortificano qualsiasi tentativo di erigere un fronte comune, esacerbando per di più le contrapposizioni al loro stesso interno. È la lenta ma inesorabile, decennale migrazione verso il contributivo dei piccoli cambiamenti a parlare: a cominciare dalla sperimentazione di “Opzione Donna”, transitando per la prima versione della ormai dimenticata PdL 5103/2012, per finire alle attuali anticipazioni, tutte prospettanti una migrazione verso il contributivo pieno per chi non voglia o non possa attendere la pensione di vecchiaia.

Se diamo per scontata la necessità e, da parte del legislatore la volontà, di rendere flessibile il sistema in ottica ampia, il prioritario oggetto del dibattere dovrebbe quindi essere il regime contributivo e non chi abbia iniziato a lavorare prima o abbia versato più contributi di chi. È sul regime di calcolo che si gioca il futuro dei prossimi pensionati e delle generazioni future e poco serve lamentarne, sovente senza cognizione di causa e talvolta pure a sproposito, i risvolti penalizzanti reali ma talvolta anche improvvidamente amplificati. Un eventuale passaggio al contributivo pieno penalizzerebbe sicuramente (magari anche pesantemente) chi ha contribuito negli anni ’80 a causa dei bassi tassi di rivalutazione imposti per quel decennio dalla riforma. Una ulteriore riduzione toccherebbe a chi volesse lasciare il lavoro molti anni prima della età per la pensione di vecchiaia. In tal caso, riduzioni intorno al 30% delle attese sono cronaca ormai di tutti i giorni. Diverso sarebbe per chi possa vantare contribuzioni oltre i 40 anni, combinate con una età congruente con la pensione di vecchiaia. Mentre il regime retributivo bloccava la contribuzione al raggiungimento del 40° anno, il regime contributivo non pone limiti alla contribuzione e, per chi possiede solo contribuzioni post 1996, al verificarsi di tali circostanze la liquidazione in regime contributivo potrà rivelarsi addirittura vantaggiosa. Ignorare questo aspetto significa, un’altra volta e a dispetto delle vuote chiacchiere che si sprecano in favore dei giovani, pensare unicamente a se stessi.

Pensare ai giovani significa invece rendersi consapevoli che non è nel metodo l’errore ma nelle formule e negli assunti di comodo imposti dal legislatore, come quello dei coefficienti di rivalutazione relativi agli anni ’80, utilizzati nella rivalutazione del montante contributivo, significativamente inferiori alla inflazione reale (si viaggiava a due cifre) degli stessi anni. In buona sostanza, pensare ai giovani, oltre che a se stessi, non significa fossilizzarsi su regole che il Governo già ha messo in soffitta da tempo anche grazie alla nostra pregressa ignavia; significa fare emergere tutte le contraddizioni di un sistema affinché vi si ponga rimedio, senza dimenticare che, a suo tempo, il 64% dei lavoratori si disse favorevole al sistema contributivo ma, giunti al redde rationem, evidentemente se ne sono scordati.

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