Quando uno pur lavorando diventa povero, vuol dire che è in atto un processo inaccettabile. La ripresa dell’Italia ci sarà quando si deciderà di stare con la parte sana del Paese: studenti, lavoratori, precari, pensionati.
Sono parole forti quelle pronunciate ieri da Landini, in piazza Del Popolo a Roma. Parole forti, che fanno da contraltare al viscerale populismo di quella parte politica che, confidando di poter recuperare facili consensi, alimenta xenofobia e razzismo contro lo straniero accusandolo di delinquere tutelato dalla mala politica (quella altrui s’intende), di godere di indebiti benefici dalle amministrazioni pubbliche, ma anche parole forti nei confronti di chi analoghi luoghi comuni vorrebbe usarli per instillare rancore, quando non addirittura odio, tra le generazioni, tra occupati e disoccupati, tra dipendenti pubblici e privati, tra lavoratori e pensionati, tra chi la casa ce l’ha e chi non ce l’ha, tra chi potendo contare su più entrate resta a galla e chi invece arranca perché monoreddito. “Guerra tra poveri” si chiama e si fa vieppiù virulenta mano a mano che la crisi si accentua, mano a mano che aumenta il divario tra chi ancora ce la fa e chi no, mano a mano che, riducendosi le residue soggettive speranze di riscatto, si materializza lo spettro della miseria.
Parole forti che segnano una svolta netta rispetto al presente atteggiamento corporativistico (inteso nell’accezione contestuale del termine) delle organizzazioni sindacali che, affrontando le problematiche da un punto di vista prettamente settoriale, non solo non dicono come il Jobs Act e la disoccupazione siano questioni che riguardano anche i pensionati o come le mire di riforma pensionistica debbano preoccupare anche, e forse ancor più, le generazioni più giovani. Non è un caso se in chiusura di manifestazione la Camusso, che pure è stata presente tra le quinte e sul palco per tutto il tempo, ha disertato i saluti di commiato allontanandosi in sordina. Quanto è stato detto ieri dagli intervenuti suona come un epitaffio nei confronti di un modo di fare e di essere sindacato che, considerato il protrarsi ormai da molto tempo di uno stato di ibernazione dei consensi, non avrebbe più motivi per continuare ad esistere se ora non sapesse cogliere il vento di rinnovamento che sta spirando, se anziché accettare il confronto aperto e pubblico continuasse ad allontanarsi con evidente stizza dalle manifestazioni. Il principale sconfitto dalla manifestazione UNIONS di ieri è stato proprio l’immobilismo figlio della concertazione e c’è da augurarsi che questo sia stato compreso anche da chi di dovere.
Una considerazione, assolutamente non secondaria, che ora si deve trarre è che sarebbe assolutamente miope, sintomo di un’analisi mai compiuta da parte nostra, attribuire le ragioni dello stato di fatto al solo Renzi in quanto “rottamatore” della sinistra. Renzi non ha rottamato proprio nulla, tanto meno ha stravolto l’anima alla sinistra per il semplice motivo che la sinistra, nel nostro parlamento, non esiste più da almeno trent’anni, da quando ci lasciò il mai più ritrovato Berlinguer. Renzi non lo ha portato al premierato il Padreterno; dietro l’ingerenza di poteri esterni, ce lo ha portato quella che ancora ci ostiniamo a chiamare sinistra, i muti e sordi esecutori della Troika che dal ’92 stanno demolendo il sistema pensionistico e lo Statuto dei Lavoratori. Dopo la manifestazione UNIONS, dopo le rigeneranti parole di Landini, Rodotà e tanti altri, non è più possibile rinchiudersi in considerazioni fideistiche: la nostra controparte, la controparte di studenti, lavoratori, pensionati, donne e immigrati senza distinzione alcuna, sta la, nel Parlamento, e si chiama PD, FI, NCD, M5S e via dicendo, fino a comprendere l’intero arco di scranni. Se così non fosse, non saremmo stati chiamati in piazza da un sindacalista illuminato per parlare di coalizione sociale. Coalizione per cosa, contro chi, se in Parlamento avessimo una rappresentanza, se in Parlamento i bisogni dei cittadini trovassero ascolto e voce? Attribuire a Renzi, alla Fornero o a chissà chi altro ancora la responsabilità dell’attuale declino significherebbe non aver capito nulla di quanto è avvento e di quanto si è udito ieri in Piazza del Popolo; al massimo, significherebbe aver beneficiato di una momentanea comprensione del proprio disagio.
Dopo la giornata di ieri, anche il più conformato alla linea di partito non potrà più giustificarsi sostenendo di non aver capito; soprattutto non potrà più schermirsi dietro all’intangibilità della fede in una antica appartenenza politica. Da ieri, chi continuerà a sostenere lo status quo col voto, con le idee, con la fattualità, non potrà più disconoscere le responsabilità che deriveranno dalle sue scelte. Parimenti, le aspettative che scaturiscono dalle parole udite ieri a Roma impongono l’assunzione di precise responsabilità da parte di chi le condivide. La delusione per il lungo processo involutivo vissuto dalla politica durante questi ultimi decenni è più che comprensibile e condivisibile ma ora è tempo di deporre gli atteggiamenti fideistici nei confronti di chi sta portando alla rovina il Paese e di affrontare il futuro con fattuale realismo e coerenza.