Il lettore poco allenato al verbo della politica tende ad interpretare le parole di un discorso in maniera rigidamente connessa alla sua soggettiva visione dell’insieme. Per esemplificare: quando si parla di benessere nazionale, molti compiono l’errore di ritenere che, se esiste un livello di benessere nazionale, questi devva ripartirsi equamente tra i cittadini. Purtroppo ciò è drammaticamente smentito dai fatti che invece ci evidenziano come ad una maggiore stabilità dello stato non necessariamente corrisponda un altrettanto benessere dei cittadini anzi, a fronte di un maggior benessere di alcuni, solitamente corrisponde un drastico peggioramento dei livelli di vita di altri.
Ho ritenuto importante questa premessa perché, leggendo l’agenda “Europe 2020” che, nei progetti di Barroso, sostituisce le precedenti e fallimentari direttive imposte con gli accordi di Basilea, la prima impressione è quella di un generoso sforzo per procurare, nell’ arco di un decennio, un soddisfacente livello di stabilità e benessere a tutti i cittadini dell’ Unione. Ma è proprio così? Uno dei sostanziali obiettivi dichiarati è una occupazione stabile per il 75% della popolazione dell’intera area. Nobile intento si direbbe, ma quando si valutano le situazioni reali, che documentano tassi di disoccupazione di gran lunga oltre le due cifre percentili e la profonda recessione in atto, qualche interrogativo è d’uopo porselo.
Come si diceva prima, basta intendersi, perché non è difficile procurare il lavoro a quasi tutti; il difficile è accompagnarlo con il rispetto dei diritti essenziali, con una positiva dinamica salariale, col rispetto del diritto, delle leggi sulla sicurezza sul lavoro e con tutto il resto del corollario che ancor oggi ci consente di partecipare al consesso delle nazioni cosiddette civili, ancorchè defilati in posizioni sempre più borderline. Oggi, nella nostra stessa Italia, un giovane può trovare lavoro: basta che rinunci ad ogni diritto e tutela, che faccia missione del suo prevalentemente misero incarico, che non pretenda un futuro da autosufficiente e che accetti una remunerazione il più delle volte nemmeno sufficiente a rimborsargli le spese. Fatte queste considerazioni, molti aspetti del documento della commissione europea devono essere letti necessariamente sotto una diversa luce e, in particolare, laddove si parla di
– agevolare e promuovere la mobilità della manodopera all’interno dell’UE e garantire un maggiore equilibrio tra offerta e domanda di lavoro, con un sostegno finanziario adeguato dei fondi strutturali, in particolare del Fondo sociale europeo (FSE), e promuovere una politica di migrazione dei lavoratori che sia globale e lungimirante, in modo da rispondere con la necessaria flessibilità alle priorità e alle esigenze dei mercati occupazionali; –
Se a questo intento colleghiamo i recenti accordi ispano tedeschi volti ad esportare manodopera verso le floride aziende teutoniche, il quadro inizia a diventare purtroppo cupo. Intanto perché l’esigenza primaria non sembra essere quella di procurare lavoro a chi non lo possiede bensì quello di rispondere, con la necessaria flessibilità, alle priorità e alle esigenze dei mercati occupazionali. Sorge spontaneo un elementare interrogativo: perché mai la Germania dovrebbe importare manodopera quando potrebbe invece cogliere l’occasione per ridurre ulteriormente i numeri della sua già bassa disoccupazione? perché porgere l’aiuto ad altri prima di aiutare se stessi? La risposta è banale; detto che non mi riesce di scorgere nell’elettorato tedesco uno spiccato spirito missionario, resta una sola possibilità: la Germania offre lavoro ai disoccupati spagnoli perché quest’ultimi percepiranno retribuzioni inferiori. In sostanza, si è aperta la porta a movimenti migratori forzati che, dietro la maschera di una aleatoria stabilità, nascondono uno sfruttamento delle masse lavoratrici. Su questo, manco a dirlo, in Italia tutti tacciono ma i fatti non si possono cancellare: il progetto di Barroso è in rete, basta leggerlo, come basta leggere i quotidiani per sapere che la disoccupazione in Spagna si sta impennando esponenzialmente, che l’Italia la seguirà probabilmente a ruota e che nel parlamento spagnolo la tragedia della disoccupazione la si liquida con espressioni triviali da suburra.
Forse è tempo che i cittadini inizino a leggere attentamente questo documento che è destinato a mutare la vita di un continente per diverse generazioni e non solo quella dei “senza lavoro”; forse è anche tempo di cominciare a chieder conto soprattutto a quelli che, presentandosi come paladini delle classi deboli, su questi fatti tacciono sapendo di tacere.